In una parola: ACT!
L'Acceptance and Commitment Therapy si potrebbe definire una psicoterapia comportamentale-esperienziale evidence based (Moderato, 2008). In inglese ACT sta per: “Accept thoughts and feelings, Choose directions, Take actions”: accetta pensieri ed emozioni, scegli le priorità, agisci (Hofman, 2008). La prima cosa che si impara è la pronuncia: ACT, una sola parola, non come un acronimo. Sembra banale ma è il pilastro su cui si costruisce questa terapia: l’azione. Non un’azione qualsiasi, bensì un’azione guidata dai valori. Questo modello di terapia si fonda su un‟ importante componente esistenziale: che cosa conta davvero per noi, che direzione vogliamo prendere, per che cosa ci vogliamo impegnare? Ma non basta, ‘‟azione deve essere consapevole. Qualsiasi cosa stiamo facendo dobbiamo sempre essere pienamente coinvolti, impegnarci consapevolmente. |
L’ACT è una terapia rivoluzionaria perché non si preoccupa di ridurre o eliminare i sintomi, ma di fare in modo che si viva una vita ricca, piena e significativa, pur in presenza dei sintomi. I sintomi possono attenuarsi in seguito, some conseguenza. Per questo si rende necessario un altro elemento fondamentale: l’Accettazione. Possiamo cioè vivere una vita ricca, mentre accettiamo il dolore che inevitabilmente l’accompagna. L’ACT insegna ad incrementare la flessibilità psicologica, cioè la capacità di sviluppare comportamenti conformi ai valori significativi nella propria vita (Bulli, 2010; Harris, 2011).
Le basi teoriche dell’ACT
L'ACT venne proposta alla comunità scientifica da Steven C. Hayes, con la pubblicazione di un libro (Hayes, 1999). Hayes, attualmente docente presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università del Nevada (Reno, Nevada, USA), principale esponente del protocollo terapeutico, descrive l'ACT da differenti prospettive. L'ACT è una filosofia, una teoria di base, una teoria applicata, ma anche un insieme di tecniche interconnesse tra loro, che hanno in comune alcuni elementi che derivano dall'insegnamento buddista: l'ubiquità della sofferenza umana, il ruolo dell'attaccamento alle credenze e ai comportamenti disfunzionali nel disagio psicologico, la meditazione, l'agire etico e virtuoso (Hayes 2002a; 2002b;2003). Secondo Hayes, avere incluso nella psicologia clinica delle tecniche che derivano da tradizioni spirituali e religiose rappresenta un arricchimento, senza che questo significhi che la moderna psicologia scientifica venga limitata dalle prospettive religiose e/o spirituali.
Il contestualismo funzionale
Hayes (2004) definisce l’ACT come un approccio strettamente comportamentale, basato sull’analisi clinica del comportamento umano, secondo la prospettiva del contestualismo funzionale. Il contestualismo, come indica lo stesso nome, considera il significato e la funzione di un evento definito dal suo contesto, in contrasto con le prospettive teleologica e meccanicistica. Secondo una prospettiva teleologica, il comportamento è spiegato in termini di scopi (ad esempio si lavora per l’autorealizzazione, oppure per sopravvivere), mentre in una prospettiva meccanicistica l’essere umano viene assimilato ad un elaboratore di informazioni, utilizzando il computer come metafora della mente. I pensieri e le emozioni ‘disfunzionali’ vengono considerate parti difettose della macchina, che devono pertanto essere eliminate o sostituite al fine di ripristinare un ottimale funzionamento della macchina stessa. Secondo questo modello, riprendendo l’esempio precedente, si lavora perché la nostra rete neurale è predisposta in tal senso. Nel modello contestualistico, nessun pensiero, emozione o comportamento sono considerati in sé disfunzionali o patologici, lo diventano in un contesto che comprende la fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale, ovvero se ci impediscono di vivere una vita di valore. Per poter raggiungere lo scopo di modificare un comportamento è necessario manipolare le variabili contestuali (Bulli, 2010).
La teoria dei contesti relazionali “Relational Frame Theory”
La teoria dei contesti relazionali (RTF) è un modello teorico di matrice post-Skinneriana, basato su di un programma di ricerca sul linguaggio e sui processi cognitivi (Hayes, 2001; Fletcher 2005). Secondo questo modello, i pensieri finiscono per acquisire un significato letterale, così come molto del loro impatto su emozioni e comportamenti, solo perché si è venuto a stabilire nel tempo una relazione arbitraria tra eventi ( Hayes, 2001). Per analizzare qualsiasi comportamento umano è necessario considerare la struttura relazionale cognitiva entro la quale il comportamento si attua. Le reti relazionali che vengono a crearsi sono resistenti al cambiamento e alla soppressione, al punto che spesso i tentativi di evitamento portano a rinforzare la rete stessa: non pensare a “x" serve come stimolo contestuale per “x", al punto da rendere psicologicamente presente l'evento x. Anche modalità cognitive quali la disputa comportano il rischio di mantenere e rinforzare una tale rete di relazioni. La RFT sottolinea come tali processi, alla base della fusione cognitiva (v. oltre), siano per il soggetto per lo più inconsapevoli, rendendolo meno in contatto con l'esperienza del “qui ed ora”, maggiormente dominato dalle regole verbali e dalle contingenze dirette (Hayes, 1989). Il disagio psicologico è comprensibile solamente all'interno della rete cognitiva creata dai processi linguistici (Fletcher, 2005). Secondo tale prospettiva, la RFT non intende modificare la catena causale S-R di pensiero-azione o emozione-azione, ma intende cambiare la struttura relazionale (il contesto) che sostiene la rete causale pensiero-azione e emozione-azione. Le tecniche utilizzate sono primariamente l'accettazione dell'esperienza e la defusione cognitiva (Hayes, 2004).
Comportamenti modellati dalle contingenze e comportamenti governati da regole
Per comportamenti modellati dalle contingenze si intendono quelli determinati dall’esposizione diretta a contingenze non verbali: ad esempio toccando il fuoco ci si brucia e si impara a non toccarlo più. Se invece qualcuno, prima che noi tocchiamo il fuoco, ci dice di non toccarlo per non ustionarci, siamo di fronte ad un comportamento governato da regole (“rule-governed behaviour”) (Hayes, 1989). Alcune regole verbali sono estremamente utili all’essere umano, in quanto consentono un’interazione vantaggiosa con l’ambiente esterno, senza dover ricorrere ogni volta a costose esperienze di apprendimento per prove ed errori. Questa capacità, propria degli esseri umani, di seguire una regola verbale, rappresenta un’arma a doppio taglio, in quanto, se da un lato consente un apprendimento efficace, dall’altro può produrre una certa inflessibilità rispetto ai cambiamenti del contesto. Questo è valido soprattutto per le regole auto-generate, che possono limitare notevolmente il repertorio comportamentale di una persona. Le regole auto-generate funzionano allo stesso modo di quelle trasmesse dai nostri genitori o dalla società, tendono però ad essere più resistenti al cambiamento, anche in presenza di prove dal mondo esterno che ne disconfermano la validità (Barcaccia, 2006). Il comportamento governato da regole fornisce una spiegazione di alcune rigidità comportamentali che si possono riscontrare in diversi disturbi emozionali. Costituisce il tentativo di spiegare il paradosso nevrotico secondo il quale, alcuni comportamenti continuano ad essere perpetrati nonostante le conseguenze negative. Lo stesso Skinner (1983), notò come “il comportamento non sia sempre modellato dalle contingenze”. Anche la terapia cognitiva tradizionale riconosce il ruolo di regole erronee e inefficaci come fattore di mantenimento di molti comportamenti problematici rigidi e inflessibili: “L’organizzazione cognitiva del paziente depresso può diventare così indipendente dalla stimolazione esterna, che l’individuo risulta insensibile ai cambiamenti nel proprio ambiente … errori sistematici nel pensiero della persona depressa mantengono la validità dei concetti negativi, nonostante la presenza di evidenze contraddittorie.”(Beck, 1979). Il punto di partenza è simile, ma l’ACT si discosta in modo sostanziale nell’approccio terapeutico, che si focalizza sul contesto e sulla funzione anziché sul contenuto e sulla forma. La terapia cognitiva tradizionale cerca di cambiare il contenuto delle regole che portano a disagio emozionale, con l’aiuto di una dettagliata e specifica analisi delle “prove” che le sostengono, nella speranza di ottenere una riformulazione più adattiva e maggiormente rappresentativa della realtà. Al contrario, l‟ACT considera i comportamenti governati da regole dannosi solo se non sono sotto un adeguato controllo contestuale. Le regole verbali, estremamente utili in alcune aree di vita, possono essere controproducenti in altre. Ad esempio, la regola ”soffrire è brutto e rende la vita inutile”, nella prospettiva ACT, può solo aggiungere sofferenza alla sofferenza, indipendentemente dalla sua veridicità.
L'ACT venne proposta alla comunità scientifica da Steven C. Hayes, con la pubblicazione di un libro (Hayes, 1999). Hayes, attualmente docente presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università del Nevada (Reno, Nevada, USA), principale esponente del protocollo terapeutico, descrive l'ACT da differenti prospettive. L'ACT è una filosofia, una teoria di base, una teoria applicata, ma anche un insieme di tecniche interconnesse tra loro, che hanno in comune alcuni elementi che derivano dall'insegnamento buddista: l'ubiquità della sofferenza umana, il ruolo dell'attaccamento alle credenze e ai comportamenti disfunzionali nel disagio psicologico, la meditazione, l'agire etico e virtuoso (Hayes 2002a; 2002b;2003). Secondo Hayes, avere incluso nella psicologia clinica delle tecniche che derivano da tradizioni spirituali e religiose rappresenta un arricchimento, senza che questo significhi che la moderna psicologia scientifica venga limitata dalle prospettive religiose e/o spirituali.
Il contestualismo funzionale
Hayes (2004) definisce l’ACT come un approccio strettamente comportamentale, basato sull’analisi clinica del comportamento umano, secondo la prospettiva del contestualismo funzionale. Il contestualismo, come indica lo stesso nome, considera il significato e la funzione di un evento definito dal suo contesto, in contrasto con le prospettive teleologica e meccanicistica. Secondo una prospettiva teleologica, il comportamento è spiegato in termini di scopi (ad esempio si lavora per l’autorealizzazione, oppure per sopravvivere), mentre in una prospettiva meccanicistica l’essere umano viene assimilato ad un elaboratore di informazioni, utilizzando il computer come metafora della mente. I pensieri e le emozioni ‘disfunzionali’ vengono considerate parti difettose della macchina, che devono pertanto essere eliminate o sostituite al fine di ripristinare un ottimale funzionamento della macchina stessa. Secondo questo modello, riprendendo l’esempio precedente, si lavora perché la nostra rete neurale è predisposta in tal senso. Nel modello contestualistico, nessun pensiero, emozione o comportamento sono considerati in sé disfunzionali o patologici, lo diventano in un contesto che comprende la fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale, ovvero se ci impediscono di vivere una vita di valore. Per poter raggiungere lo scopo di modificare un comportamento è necessario manipolare le variabili contestuali (Bulli, 2010).
La teoria dei contesti relazionali “Relational Frame Theory”
La teoria dei contesti relazionali (RTF) è un modello teorico di matrice post-Skinneriana, basato su di un programma di ricerca sul linguaggio e sui processi cognitivi (Hayes, 2001; Fletcher 2005). Secondo questo modello, i pensieri finiscono per acquisire un significato letterale, così come molto del loro impatto su emozioni e comportamenti, solo perché si è venuto a stabilire nel tempo una relazione arbitraria tra eventi ( Hayes, 2001). Per analizzare qualsiasi comportamento umano è necessario considerare la struttura relazionale cognitiva entro la quale il comportamento si attua. Le reti relazionali che vengono a crearsi sono resistenti al cambiamento e alla soppressione, al punto che spesso i tentativi di evitamento portano a rinforzare la rete stessa: non pensare a “x" serve come stimolo contestuale per “x", al punto da rendere psicologicamente presente l'evento x. Anche modalità cognitive quali la disputa comportano il rischio di mantenere e rinforzare una tale rete di relazioni. La RFT sottolinea come tali processi, alla base della fusione cognitiva (v. oltre), siano per il soggetto per lo più inconsapevoli, rendendolo meno in contatto con l'esperienza del “qui ed ora”, maggiormente dominato dalle regole verbali e dalle contingenze dirette (Hayes, 1989). Il disagio psicologico è comprensibile solamente all'interno della rete cognitiva creata dai processi linguistici (Fletcher, 2005). Secondo tale prospettiva, la RFT non intende modificare la catena causale S-R di pensiero-azione o emozione-azione, ma intende cambiare la struttura relazionale (il contesto) che sostiene la rete causale pensiero-azione e emozione-azione. Le tecniche utilizzate sono primariamente l'accettazione dell'esperienza e la defusione cognitiva (Hayes, 2004).
Comportamenti modellati dalle contingenze e comportamenti governati da regole
Per comportamenti modellati dalle contingenze si intendono quelli determinati dall’esposizione diretta a contingenze non verbali: ad esempio toccando il fuoco ci si brucia e si impara a non toccarlo più. Se invece qualcuno, prima che noi tocchiamo il fuoco, ci dice di non toccarlo per non ustionarci, siamo di fronte ad un comportamento governato da regole (“rule-governed behaviour”) (Hayes, 1989). Alcune regole verbali sono estremamente utili all’essere umano, in quanto consentono un’interazione vantaggiosa con l’ambiente esterno, senza dover ricorrere ogni volta a costose esperienze di apprendimento per prove ed errori. Questa capacità, propria degli esseri umani, di seguire una regola verbale, rappresenta un’arma a doppio taglio, in quanto, se da un lato consente un apprendimento efficace, dall’altro può produrre una certa inflessibilità rispetto ai cambiamenti del contesto. Questo è valido soprattutto per le regole auto-generate, che possono limitare notevolmente il repertorio comportamentale di una persona. Le regole auto-generate funzionano allo stesso modo di quelle trasmesse dai nostri genitori o dalla società, tendono però ad essere più resistenti al cambiamento, anche in presenza di prove dal mondo esterno che ne disconfermano la validità (Barcaccia, 2006). Il comportamento governato da regole fornisce una spiegazione di alcune rigidità comportamentali che si possono riscontrare in diversi disturbi emozionali. Costituisce il tentativo di spiegare il paradosso nevrotico secondo il quale, alcuni comportamenti continuano ad essere perpetrati nonostante le conseguenze negative. Lo stesso Skinner (1983), notò come “il comportamento non sia sempre modellato dalle contingenze”. Anche la terapia cognitiva tradizionale riconosce il ruolo di regole erronee e inefficaci come fattore di mantenimento di molti comportamenti problematici rigidi e inflessibili: “L’organizzazione cognitiva del paziente depresso può diventare così indipendente dalla stimolazione esterna, che l’individuo risulta insensibile ai cambiamenti nel proprio ambiente … errori sistematici nel pensiero della persona depressa mantengono la validità dei concetti negativi, nonostante la presenza di evidenze contraddittorie.”(Beck, 1979). Il punto di partenza è simile, ma l’ACT si discosta in modo sostanziale nell’approccio terapeutico, che si focalizza sul contesto e sulla funzione anziché sul contenuto e sulla forma. La terapia cognitiva tradizionale cerca di cambiare il contenuto delle regole che portano a disagio emozionale, con l’aiuto di una dettagliata e specifica analisi delle “prove” che le sostengono, nella speranza di ottenere una riformulazione più adattiva e maggiormente rappresentativa della realtà. Al contrario, l‟ACT considera i comportamenti governati da regole dannosi solo se non sono sotto un adeguato controllo contestuale. Le regole verbali, estremamente utili in alcune aree di vita, possono essere controproducenti in altre. Ad esempio, la regola ”soffrire è brutto e rende la vita inutile”, nella prospettiva ACT, può solo aggiungere sofferenza alla sofferenza, indipendentemente dalla sua veridicità.
I sei processi fondamentali dell’ACT
Il modello psicopatologico ACT è centrato sull'inflessibilità psicologica e sostenuto da sei processi fondamentali (Evitamento esperienziale, fusione cognitiva, Dominanza di passato e futuro concettualizzati, Mancanza di chiarezza/contatto con i propri valori, azioni infattibili, Attaccamento al sé concettualizzato). Questi processi patologici sono soggetti ad ampia sovrapposizione e sono tutti interconnessi (Harris, 2011; Hayes, 2013). Scopo dell’intervento ACT è promuovere il movimento dall’inflessibilità alla flessibilità psicologica, e quindi ai sei processi speculari (defusione cognitiva, accettazione, contatto con il momento presente, vaori, azione impegnata, se come contesto). |
L’evitamento esperienziale: il primo processo chiave target dell’intervento ACT è l’evitamento esperienziale, ossia quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali. L’evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione della rabbia.
Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene chiamato Accettazione e può definirsi come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza” delle emozioni dolorose e ai pensieri e ricordi dolorosi. L’Accettazione nell’ACT non è sinonimo di rassegnazione o tolleranza. Accettare significa consentire ai nostri pensieri sentimenti di essere come sono, indipendentemente dal fatto che siano piacevoli o dolorosi; significa aprirsi per lasciare loro uno spazio, abbandonare la lotta per contrastarli, lasciare che siano.
La fusione cognitiva: è il secondo processo fondamentale per l’ACT ed è definibile come la tendenza degli esseri umani ad essere catturati, “imbrigliati” dai contenuti dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo. Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro. La controparte funzionale della fusione cognitiva, nell’ACT è la Defusione. Quindi è di primaria importanza intervenire non sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.
Dominanza del passato e del futuro concettualizzati: è il terzo processo chiave su cui si focalizza l’Acceptance Committment Therapy. Tale processo si può definire come un insieme di difficoltà a dirigere e mantenere l’attenzione sul momento presente e a cambiare il focus dell’attenzione tra le varie dimensioni della propria esistenza. Tutte le energie dell’individuo sono concentrate su un “tema” o una difficoltà e da quell’argomento non riesce ad uscire, limitando così la sua influenza nella propria vita. Esempi prototipici di dominanza del passato o del futuro sul momento presente sono il rimuginio e le ruminazioni depressive. Nel momento in cui si rimugina o si rumina sul passato, tali processi richiedono molte energie e concentrano tutta la nostra attenzione sul processo stesso. La proposta di intervento dell’ ACT è promuovere il contatto con il momento presente: essere psicologicamente presenti e disponibili verso ciò che accade nel momento presente. Noi esseri umani, per motivi legati a una sorta di “economia mentale”, tendiamo naturalmente a svolgere moltissime attività quotidiane senza porre attenzione a quello che facciamo. Come se spesso le nostre azioni fossero gestite da un “pilota automatico” che ci permette di svolgere più attività in contemporanea. Sebbene, in molte occasioni, tale automaticità sia utile e funzionale, esistono diverse occasioni in cui agire in automatico e perdere il contatto con ciò che stiamo facendo è dannoso e disfunzionale per la nostra vita. Entrare in contatto con il momento presente significa anche scegliere consapevolmente di portare la propria attenzione su ciò che sta accedendo dentro di me e nel mondo fisico esterno in quel preciso momento.
Il Sè concettualizzato è il quarto processo chiave della ACT. Potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di “fusioni” di definizioni di noi stessi che la mente di ognuno di noi ci racconta. Queste definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé in relazione con gli altri. Quando questo processo è molto presente e può essere dannoso, ci si identifica fortemente con i contenuti della propria mente. Ci sono varie forme che il sé concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcune tra le più frequenti possono essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”, “lo sfortunato”, “l’imbranato”. In altre occasioni il sé concettualizzato assume il contenuto di fissazioni rigide su specifici problemi, blocco che porta a non riuscire a cogliere l’evoluzione dell’esperienza. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi. Il sé concettualizzato contiene una descrizione complessa di noi stessi, a cui ci siamo affezionati e che presto diventa così cristallizzato che noi lo scambiamo per la realtà assoluta. Quindi, una problematica come un problema d’ansia (ma vale veramente per qualsiasi tipo di difficoltà) si trasforma nel sé concettualizzato “io sono un ansioso” e non importa quante esperienze io faccia in cui non ho provato quell’ansia forte e spaventosa, io continuo a descrivermi verbalmente con “io sono un ansioso”. Ciò che l’ACT suggerisce come controparte virtuosa del sé concettualizzato è Il Sé Come Contesto. Il sé come contesto è un punto di vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza. Ciò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole di autoriflessione della propria esperienza mentre avviene. Questo potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere in questo modo quale sia la maschera che indossiamo.
Mancanza di contatto con i propri valori: con tale espressione si intende l’insieme di difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. In taluni casi si può osservare la confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le persone che presentano difficoltà nel processo “Mancanza di contatto con i propri valori” hanno difficoltà a rispondere alla domanda “cosa è importante per me?”.
Con il termine valori nell’ ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come qualità desiderate dell'agire continuativo. I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti difficili. Le scelte difficili della nostra vita, spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori. Spesso i valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai nostri valori tramite insiemi di obiettivi, concreti, fattibili (workable, una delle parole chiave dell’ ACT) e praticabili.
Azioni infattibili: sono gli schemi di comportamento che ci allontanano da una vita consapevole e di valore, aumentando piuttosto i nostri conflitti. Sono azioni automatiche o reattive e non consapevoli, motivate dall’evitamento esperienziale, anziché dai valori. La proposta dell’ACT risiede nel concetto di “azione impegnata”: il termine è usato per definire l’azione personale guidata dai propri valori, prevede invece che l’individuo “faccia i conti” con le proprie difficoltà e fragilità. Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità e guidando le proprie azioni partendo dai propri valori personali permette di perseguire una vita significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e scelta.
In particolare è importante per l’Acceptance and Commitment Therapy il concetto della workability, della “fattibilità“. Un’azione impegnata e guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile.
In altre parole, l’azione impegnata consiste nello scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso.
Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene chiamato Accettazione e può definirsi come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza” delle emozioni dolorose e ai pensieri e ricordi dolorosi. L’Accettazione nell’ACT non è sinonimo di rassegnazione o tolleranza. Accettare significa consentire ai nostri pensieri sentimenti di essere come sono, indipendentemente dal fatto che siano piacevoli o dolorosi; significa aprirsi per lasciare loro uno spazio, abbandonare la lotta per contrastarli, lasciare che siano.
La fusione cognitiva: è il secondo processo fondamentale per l’ACT ed è definibile come la tendenza degli esseri umani ad essere catturati, “imbrigliati” dai contenuti dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo. Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro. La controparte funzionale della fusione cognitiva, nell’ACT è la Defusione. Quindi è di primaria importanza intervenire non sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.
Dominanza del passato e del futuro concettualizzati: è il terzo processo chiave su cui si focalizza l’Acceptance Committment Therapy. Tale processo si può definire come un insieme di difficoltà a dirigere e mantenere l’attenzione sul momento presente e a cambiare il focus dell’attenzione tra le varie dimensioni della propria esistenza. Tutte le energie dell’individuo sono concentrate su un “tema” o una difficoltà e da quell’argomento non riesce ad uscire, limitando così la sua influenza nella propria vita. Esempi prototipici di dominanza del passato o del futuro sul momento presente sono il rimuginio e le ruminazioni depressive. Nel momento in cui si rimugina o si rumina sul passato, tali processi richiedono molte energie e concentrano tutta la nostra attenzione sul processo stesso. La proposta di intervento dell’ ACT è promuovere il contatto con il momento presente: essere psicologicamente presenti e disponibili verso ciò che accade nel momento presente. Noi esseri umani, per motivi legati a una sorta di “economia mentale”, tendiamo naturalmente a svolgere moltissime attività quotidiane senza porre attenzione a quello che facciamo. Come se spesso le nostre azioni fossero gestite da un “pilota automatico” che ci permette di svolgere più attività in contemporanea. Sebbene, in molte occasioni, tale automaticità sia utile e funzionale, esistono diverse occasioni in cui agire in automatico e perdere il contatto con ciò che stiamo facendo è dannoso e disfunzionale per la nostra vita. Entrare in contatto con il momento presente significa anche scegliere consapevolmente di portare la propria attenzione su ciò che sta accedendo dentro di me e nel mondo fisico esterno in quel preciso momento.
Il Sè concettualizzato è il quarto processo chiave della ACT. Potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di “fusioni” di definizioni di noi stessi che la mente di ognuno di noi ci racconta. Queste definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé in relazione con gli altri. Quando questo processo è molto presente e può essere dannoso, ci si identifica fortemente con i contenuti della propria mente. Ci sono varie forme che il sé concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcune tra le più frequenti possono essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”, “lo sfortunato”, “l’imbranato”. In altre occasioni il sé concettualizzato assume il contenuto di fissazioni rigide su specifici problemi, blocco che porta a non riuscire a cogliere l’evoluzione dell’esperienza. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi. Il sé concettualizzato contiene una descrizione complessa di noi stessi, a cui ci siamo affezionati e che presto diventa così cristallizzato che noi lo scambiamo per la realtà assoluta. Quindi, una problematica come un problema d’ansia (ma vale veramente per qualsiasi tipo di difficoltà) si trasforma nel sé concettualizzato “io sono un ansioso” e non importa quante esperienze io faccia in cui non ho provato quell’ansia forte e spaventosa, io continuo a descrivermi verbalmente con “io sono un ansioso”. Ciò che l’ACT suggerisce come controparte virtuosa del sé concettualizzato è Il Sé Come Contesto. Il sé come contesto è un punto di vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza. Ciò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole di autoriflessione della propria esperienza mentre avviene. Questo potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere in questo modo quale sia la maschera che indossiamo.
Mancanza di contatto con i propri valori: con tale espressione si intende l’insieme di difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. In taluni casi si può osservare la confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le persone che presentano difficoltà nel processo “Mancanza di contatto con i propri valori” hanno difficoltà a rispondere alla domanda “cosa è importante per me?”.
Con il termine valori nell’ ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come qualità desiderate dell'agire continuativo. I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti difficili. Le scelte difficili della nostra vita, spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori. Spesso i valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai nostri valori tramite insiemi di obiettivi, concreti, fattibili (workable, una delle parole chiave dell’ ACT) e praticabili.
Azioni infattibili: sono gli schemi di comportamento che ci allontanano da una vita consapevole e di valore, aumentando piuttosto i nostri conflitti. Sono azioni automatiche o reattive e non consapevoli, motivate dall’evitamento esperienziale, anziché dai valori. La proposta dell’ACT risiede nel concetto di “azione impegnata”: il termine è usato per definire l’azione personale guidata dai propri valori, prevede invece che l’individuo “faccia i conti” con le proprie difficoltà e fragilità. Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità e guidando le proprie azioni partendo dai propri valori personali permette di perseguire una vita significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e scelta.
In particolare è importante per l’Acceptance and Commitment Therapy il concetto della workability, della “fattibilità“. Un’azione impegnata e guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile.
In altre parole, l’azione impegnata consiste nello scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso.
Efficacia dell’ACT: evidenze scientifiche
La principale rassegna della letteratura sull'ACT è stata proposta da Hayes, et al. (2004) sulla rivista Behavior Therapy, e in seguito aggiornata da Hayes et al. (2006) sulla rivista Behaviour Research and Therapy. I dati di letteratura dimostrano che l'ACT è un trattamento efficace in numerosi disturbi clinici e subclinici, spaziando dal trattamento dei disturbi psicotici, ai disturbi d'ansia e dell'umore. Il protocollo terapeutico dell'ACT, pur avendo ormai quasi dieci anni di verifiche empiriche, necessita di ulteriori dati evidence-based (studi randomizzati e controllati), in particolare in alcune aree applicative, come la depressione. Un recente studio controllato e randomizzato (Lappalainen, 2007) ha confrontato gli esiti del trattamento condotto secondo il modello CBT e secondo il modello ACT. In generale, lo studio riconosce come entrambi i modelli raggiungano i medesimi risultati nel medesimo tempo. Lo studio riporta come i pazienti trattati all'interno del modello CBT riportino un generale miglioramento sintomatologico, mentre i pazienti trattati col modello ACT riportino un incremento nell'auto-consapevolezza della situazione di disagio. In generale, è possibile affermare che l'applicazione dell'ACT al trattamento del dolore, dell'ansia sociale, dell'ansia generalizzata e della depressione, ha portato a risultati consistenti e incoraggianti, sostenuti anche da studi su grandi gruppi di soggetti, metodologicamente corretti e replicati in differenti contesti culturali (Ivanovski, 2007). Nonostante la ricerca sull'ACT sia ancora in una fase iniziale, i risultati preliminari suggeriscono risultati più favorevoli rispetto ai protocolli tradizionali CBT, soprattutto perché si vengono a modificare i comportamenti disadattivi di evitamento (Gaudiano, 2008). Hayes et al. (2006) riconoscono che non vi siano sufficienti studi controllati per poter concludere che l'ACT sia in assoluto più efficace di altri trattamenti CBT per l'intera gamma di problemi affrontati. In ogni caso, i limiti metodologici delle ricerche presentate richiedono ulteriori approfondimenti prima che l'ACT possa essere raccomandata come trattamento evidence-based di prima linea (Allen, 2006). Alla luce di queste evidenze, rimane sempre una buona regola valutare il tipo di paziente che si ha davanti, cercando di individuare quale sia il percorso più adatto per lui.
PER APPROFONDIRE
Act Italia http://www.act-italia.org/
Association for Contextual Behavioral Science (ACBS - www.contextualscience.org)
State of mind. Il giornale delle scienze psicologiche http://www.stateofmind.it/
Smetti di Soffrire, Inizia a Vivere di Steven C. Hayes, Spencer Smith. Impara a superare il dolore emotivo, a liberarti dai pensieri negativi e vivi una vita che vale la pena di vivere.
La principale rassegna della letteratura sull'ACT è stata proposta da Hayes, et al. (2004) sulla rivista Behavior Therapy, e in seguito aggiornata da Hayes et al. (2006) sulla rivista Behaviour Research and Therapy. I dati di letteratura dimostrano che l'ACT è un trattamento efficace in numerosi disturbi clinici e subclinici, spaziando dal trattamento dei disturbi psicotici, ai disturbi d'ansia e dell'umore. Il protocollo terapeutico dell'ACT, pur avendo ormai quasi dieci anni di verifiche empiriche, necessita di ulteriori dati evidence-based (studi randomizzati e controllati), in particolare in alcune aree applicative, come la depressione. Un recente studio controllato e randomizzato (Lappalainen, 2007) ha confrontato gli esiti del trattamento condotto secondo il modello CBT e secondo il modello ACT. In generale, lo studio riconosce come entrambi i modelli raggiungano i medesimi risultati nel medesimo tempo. Lo studio riporta come i pazienti trattati all'interno del modello CBT riportino un generale miglioramento sintomatologico, mentre i pazienti trattati col modello ACT riportino un incremento nell'auto-consapevolezza della situazione di disagio. In generale, è possibile affermare che l'applicazione dell'ACT al trattamento del dolore, dell'ansia sociale, dell'ansia generalizzata e della depressione, ha portato a risultati consistenti e incoraggianti, sostenuti anche da studi su grandi gruppi di soggetti, metodologicamente corretti e replicati in differenti contesti culturali (Ivanovski, 2007). Nonostante la ricerca sull'ACT sia ancora in una fase iniziale, i risultati preliminari suggeriscono risultati più favorevoli rispetto ai protocolli tradizionali CBT, soprattutto perché si vengono a modificare i comportamenti disadattivi di evitamento (Gaudiano, 2008). Hayes et al. (2006) riconoscono che non vi siano sufficienti studi controllati per poter concludere che l'ACT sia in assoluto più efficace di altri trattamenti CBT per l'intera gamma di problemi affrontati. In ogni caso, i limiti metodologici delle ricerche presentate richiedono ulteriori approfondimenti prima che l'ACT possa essere raccomandata come trattamento evidence-based di prima linea (Allen, 2006). Alla luce di queste evidenze, rimane sempre una buona regola valutare il tipo di paziente che si ha davanti, cercando di individuare quale sia il percorso più adatto per lui.
PER APPROFONDIRE
Act Italia http://www.act-italia.org/
Association for Contextual Behavioral Science (ACBS - www.contextualscience.org)
State of mind. Il giornale delle scienze psicologiche http://www.stateofmind.it/
Smetti di Soffrire, Inizia a Vivere di Steven C. Hayes, Spencer Smith. Impara a superare il dolore emotivo, a liberarti dai pensieri negativi e vivi una vita che vale la pena di vivere.